Sto inseguendo un dejavu, in direzione nord est. Mree in cuffia. Spaesato.
Non esistono antidoti. Solo veleni piu’lenti. Massive attack in sottofondo e birra da mezzo.
Io credo nella cura, non nella guarigione.
Non esiste nessun posto che si possa chiamare casa, fosse anche soltanto per maledirla. Ma sarò capace di farlo? Con queste mani, sarò capace?
Nella lotta come nel sesso, l’orizzontalità inaugura il regno dell’asfissia.
Ciao, cosa ti porto? un deja-vù. Come scusa? Un deja-vù. Ma andrà benissimo una corona ghiacciata. Mi guarda stupita per qualche secondo, non capisce se la sto prendendo in giro o sono semplicemente pazzo. Poi qualcosa dietro i suoi occhi fa click e riparte. Corona. Birra. Treecinquanta. Secondo ripiano del frigo. Scontrino.
Si allontana. Rimango immobile a fissare il locale. Se devo passare per pazzo, meglio sembrare un pazzo inoffensivo.
Rimane immobile a fissarmi, da dietro il bancone. Il problema è che, a parte l’arredamento in stile officina e i reggiseni appesi sopra il bancone, il DK non offre molte attrattive.
Anche considerando come nel locale, al momento, ci siamo solamente io, la barista e il ventilatore più annoiato della storia.
Eppure, mentre stringo il collo della bottiglia nella sinistra e poggio gli spiccioli sul bancone, sono stato sincero. Cercavo davvero un deja-vù, o perlomeno una risposta a quella strana sensazione che mi guida da tutto il pomeriggio. Chissà perchè poi mi sono convinto debba essere un deja-vù.